Il caso della giovane milanese allergica alle proteine del latte che ha perso la vita dopo uno shock anafilattico ha portato sotto i riflettori il tema delle allergie alimentari.
Com’è possibile morire per la presenza di tracce di un allergene? Perché i soccorsi, seppur tempestivi, sono stati inutili? Cosa si può fare per evitare che accada un’altra volta? Sono alcuni degli interrogativi che ci si è posti in questi giorni. Per provare a fare chiarezza abbiamo parlato con Jan Schroeder, direttore del reparto Allergologia e immunologia dell’Ospedale Niguarda di Milano, centro di riferimento regionale per la prevenzione, diagnosi e cura delle allergopatie.
“Innanzitutto dobbiamo distinguere tra allergie alimentari nei bambini e negli adulti – spiega Schroeder – quelle al latte e alle uova sono le allergie più diffuse tra i bambini, ma generalmente si superano intorno ai 6 anni. Negli adulti, invece, i casi di allergia al latte e alle uova sono rari, ma molto gravi.
Al Niguarda seguiamo forse 10 casi di allergia al latte tra gli adulti, su un migliaio di pazienti con allergie alimentari. Quando una di queste persone ingerisce delle proteine del latte (caseina) la reazione si scatena molto velocemente, e necessita di un intervento immediato con adrenalina per contrastare la liberazione a cascata di citochine. L’allergia al latte nell’adulto è così grave che possono bastare minime quantità di allergene a scatenare la reazione anafilattica”. Anche le tracce che possono trovarsi in un alimento contaminato accidentalmente, come potrebbe essere accaduto nel caso del tiramisù vegano
Se queste allergie sono così gravi, viene spontaneo chiedersi quante reazioni severe ad alimenti e shock anafilattici si verificano ogni anno in Italia? “La verità – continua Schroeder – è che non abbiamo dati epidemiologici. Questo perché non esiste un’istituzione nazionale di segnalazione dei casi analogo a quello della farmacovigilanza.
Solo in questo modo si potrebbero raccogliere e catalogare tutte le reazioni avverse relative alle allergie alimentari. Senza un sistema di vigilanza, è impossibile avere dati certi sulle reazioni allergiche gravi agli alimenti, ma diventa difficile anche monitorare quelle emergenti relative a cibi entrati nella dieta solo di recente”.
Cosa si può fare? “Serve una maggiore informazione degli operatori – spiega Schroeder – più comunicazione tra clienti e ristoratori e avere farmaci salvavita a disposizione. Tutte le persone con allergia alimentari gravi, soprattutto quando mangiano fuori casa, dovrebbero avere con sé l’adrenalina iniettabile (in Lombardia viene fornita gratuitamente ai pazienti), per intervenire ai primi sintomi di anafilassi. La priorità dovrebbe essere quella di evitare questi episodi con una migliore comunicazione tra i gestori di ristoranti, bar o esercizi dove si serve cibo e i clienti. Per le persone non deve essere un problema dichiarare la propria allergia e rifiutare un piatto se non si sente sicuro, mentre il ristoratore deve essere certo di quello che offre”.
In quest’ottica giova ricordare che i soggetti con allergie a latte e uova quando scelgono un ristorante o un prodotto vegano non sono automaticamente protetti dal rischio di shock anafilattico. I prodotti adatti a una dieta vegana possono essere lavorati in stabilimenti in cui si preparano e confezionano anche altri alimenti che contengono ingredienti di origine animale. Di conseguenza anche in un piatto o un cibo classificato come vegano potrebbero essere presenti tracce di latte, uova e altri allergeni di origine animale, che devono essere correttamente indicati in etichetta.